Project Description
Mostra personale “ninfee – nell’acqua immota dello stagno la forma cessa e la materia si colora”
Scuderie di Palazzo Moroni – Padova 2006
Nei quadri di Cristina Cocco la pittura racconta, in una versione inedita ed informale, quella soglia di metamorfosi in cui la natura termina il suo ciclo e si decompone per germinare nuove ipotesi di forma.
Cristina Cocco conosce bene la pittura. Parla dei colori, delle stesure, delle soluzioni, dei pigmenti con la naturalezza dell’esperto. Sa esattamente quello che deve fare, come ottenere soddisfazione dal colore puro, dalla vernice, dalla velatura, dalla schermatura. Sa attraversare con gesto sicuro la tela dipinta tracciando quei filamenti sinuosi che, come onde eteriche, muovono la superficie dei suoi ultimi quadri titolati Levitazioni. Sa come muoversi dietro le quinte della pittura perché ne ha sposato le ragioni sin dall’adolescenza. L’Accademia ha fatto la sua parte, le ha insegnato il mestiere del dipingere. Tuttavia l’attrazione fatale per quella materia che può trasformarsi in forma simbolica, può tradurre il pensiero sensibile dal caos originario alla visualizzazione delle idee, superava il confine dell’apprendimento. Nella fase dell’entusiasmo formativo la Cocco sfoderò il talento e i risultati non si fecero attendere: la giovane artista padovana appariva come una promessa che la stessa Accademia segnalava alle mostre. Venne poi il tempo del silenzio. Un grande sacrificio e un grande dono che fece a se stessa. Quella materia andava vegliata in uno stato simile a quello che anticamente veniva chiamato quies: una sospensione dell’azione che lascia deste e vigili le facoltà intellettuali. Nel tempo remoto del mito la quies predisponeva alla catarsi ma ora, nel regno e nel tempo del rumore, è diventata una dote rara di percezione sottile che gli artisti condividono con quei pochi pensatori leggeri che si sporgono sul bordo dell’ineffabile. La riflessione della Cocco riguarda interamente la pittura: ad essa chiede l’accogliente complessità di un universo che sappia farsi ventre alle sue domande. La prima mossa fu cercare un luogo, fisico e ideale allo stesso tempo, che potesse rappresentare quel ventre dove condurre la sua ricerca. L’ha trovato in una postazione in verità già nota all’arte, consacrata un secolo fa come canone poetico generativo: lo stagno delle ninfee. Tutta una linea d’ informale materico e cromatico affonda le sue radici nello stagno di Giverny e arriva sino ai tempi nostri potendo contare, in Italia, sull’importante contributo degli ultimi naturalisti di Francesco Arcangeli. Ma il percorso di Cristina Cocco è diverso, non dimentica la fonte primaria della natura: torna allo stagno e si ferma. Trova una panchina dove ” sedendo e mirando ” può dimenticare la supremazia e l’autosufficienza della pasta pittorica per tornare a concentrarsi sul mistero dell’acqua. Vede la superficie che appare immota e immota non è poiché contiene una moltitudine di indizi di morte e di vita; vede le ninfee ampie e carnose che giorno dopo giorno fioriscono, si dispiegano e si decompongono. Vede una meraviglia della natura farsi plastica e poi guastarsi. Ed è lì che Cristina Cocco fissa la sua dimora poetica, in quella soglia tra il disfacimento e l’origine. La materia pittorica interpreta questo stadio, ultimo e primigenio allo stesso tempo, assegnando al colore il compito di manifestare il desiderio di trattenere la forma oltre il limite della sua decomposizione e, allo stesso tempo, di cogliere l’insorgere di nuove promesse di fioritura. Forse la Cocco non sa che questa era una delle vie sulle quali si era incamminata la pittura simbolista tra ottocento e novecento e che il magma dello stagno della pittura racchiudeva i corpi larvali che insidiavano i baci degli amanti perduti come Paolo e Francesca. Il fascino di quel luogo non ha sponde ma per lei è prima di tutto la sede eletta della mutazione, della metamorfosi che acquista evidenza nel passaggio tra l’informe che lievita e la forma che germina.
Virginia Baradel